Diario della favola del teatro

Non ricordo la strada di ritorno. Ho un sapore di grotta addosso, sto spaesato nel modo in cui si viene fuori da un cunicolo o da un anello di pianeta. Tutto era terrigno, mi ricordo, c’era una sfera e un canto, i sortilegi mi ricacciavano nei ventri, avevo un solo cuore, il buio si mangiava le cose tutte e c’era una bellezza, una malattia che mi faceva male.

E mi faceva male, ed ero vivo. 

Arrivai in un altro mondo e ritornai, con la terra sul corpo, tagli e radiazioni, pezzi di corteccia e sebo di genti. Di luna piena ebbi sogni degli altri, vagando nell’immobile del corpo: al risveglio mi riscoprii ferito, sporco con un passo di altro mondo, ed era il giorno e insieme la notte. Le arti della metamorfosi fanno alle storie un’altra pelle, un tempo corrompe un altro tempo e lascia in bocca una pasta di limo. È la natura delle favole affacciare prima gli occhi nei crepacci, nelle faglie che rimandano i nervi della terra- e gli animali e le foreste e i mari. 

Non si richieda perché il sangue di una giovane sa di acqua salata, e la risacca trascina i resti dei marinari giù nelle bocche dei pesci, dove si perdono le stelle specchiate e ogni secolo c’è una venuta di lava. Siamo interiora di comete, polvere che noi sentiamo, ceneri al vento scurite che non teniamo. Una faida fonda le famiglie insieme a un patto, si chiama amore o altro: voglio dire che era notte quando nascemmo e ora, che siamo morti.  

Ho visto questo spettacolo in due pezzi di bosco, tra umbre e fogge che non si schiovano neanche con l’acqua, che resta addosso un fumo dopo la scesa in un infero, un mondo ancestrato: è una storia di pulvisco, coi branchi di uomini e bestie, lupi e vendicazioni, poesie farneticate, strambe filastrocche su una zampa e una gamba, e i nani e le pignatte. Tutto sa di queste parti, di acque vesuviane e calchi, tutto è ricordo antico e tutto è ora. Giuro che nel vernacolo musicato si può capire senza una piega di carta: dai fogliami di alberi volano i rumori della parola, sudici e dolci, stramorenti e veritieri. Siamo noi stessi un cunto, la carna dei cuori. 

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La cupa- regia e drammaturgia di Mimmo Borrelli- 2018