Gioia e guerra

Gesù era Che Guevara: l’ha detto lei guardando la croce all’ingresso di un convento dove avrebbe dormito, a pancia in sotto fumando senza sosta con gli occhi fissi sulla televisione, e il fumo a risalire. Era la sua posa, la sua posizione per rimettere al mondo il mondo con la forma delle fotografie. La sua forma. Era un giorno di festa, il ricordo dell’ennesima testa caduta sull’altare della mafia immortale: la conoscemmo che scese da un traghetto, poco dopo l’alba, con una valigia e il mare alle spalle.

L’avremmo vista ancora e sentita, voce a voce e ricordi confusi, fino alla sua casa di Palermo. Sembrava appena nata, ogni volta, messa di sbieco in mezzo a tutto il sangue versato e agli sguardi dei bambini di strada, ai bianchi e neri di Sicilia, alle storie di bellezza di cappa e di spada. Aveva fame e respiro, mangiava e fumava, con le parole in mezzo e un sorriso che teneva il tempo, il corpo ben desto, e ora.

Un pensiero di questo tipo non può essere mesto. Si tratta di un ricordo, un fatto che succede ancora, adesso, nuovo come uno scatto che rivive solo a pensarlo. Esatto. Chi non è morto ha il dovere di dirlo, di farsi avanti e perforare il nulla a colpi di realtà, per diventare un tarlo. Hai presente un tarlo? Hai presente i giochi di parole, le mostre e i cadaveri dei soldati? Chiunque si trovi a passare per la guerra diventa un soldato, e può morire per niente oppure vivere. Chi non è morto racconta sempre in qualche modo, a parole o a voce, in mezzo alla strada. Dietro le spalle di qualcuno che sa. Ecco che il fumo risale, dolcezza infinita.

«Chi sei tu? Non lo sai? Non fa niente. Non importa. Te lo dico io. Ecco una fotografia. Una parola, una frase. Guarda, questo sei tu. Questa invece sono io. Anche se non ci sono più».

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“Quant’era bella Letizia Battaglia”, dai giorni del premio Tonino Esposito Ferraioli, dicembre 2010. Con Giovanni, Aldo, Gaetano e tanti altri.